XIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO
Dal Vangelo secondo Matteo (10,37-42)
In quel tempo, disse Gesù ai suoi discepoli: «Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me; chi ama il figlio o la figlia più di me non è degno di me; chi non prende la sua croce e non mi segue, non è degno di me. Chi avrà trovato la sua vita, la perderà: e chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà. Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato. Chi accoglie un profeta come profeta, avrà la ricompensa del profeta, e chi accoglie un giusto come giusto, avrà la ricompensa del giusto. E chi avrà dato anche solo un bicchiere di acqua fresca a uno di questi piccoli, perché è mio discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa».
Meditando questo brano evangelico potremmo dire che il Signore gioca d’azzardo perché affida la sua parola a poveri discepoli che a volte dimenticano anche di esserlo: cioè a noi. Meno male che nella sua bontà e lungimiranza, da buon maestro, da’ le coordinate essenziali per poterci riconoscere o meno suoi discepoli. Sì, perché il discepolo non è tale solo perché pratica la chiesa, perché ha ricevuto i sacramenti della iniziazione cristiana, o perché alla porta della chiesa dà il suo obolo al povero e qualche volta si ricorda di dire qualche preghiera. Tutto questo è nell’ordine di uno vago senso di appartenenza alla chiesa del Signore. E’una interpretazione molto riduttiva del progetto e del pensiero di Cristo, così come è presentato dal brano di Matteo.
Diciamo innanzitutto che il cristiano è un discepolo nella vita del quale il ruolo del Maestro è fondamentale. Non è uno che quasi per inerzia, per tradizione familiare o sociale o culturale si considera cristiano. Il discepolo è un chiamato, un catechizzato ed un mandato dal Maestro. È un chiamato: “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi” (Gv 15,16); è un catechizzato, un ammaestrato: “Beati voi che siete poveri… Beati voi che ora avete fame… Beati voi che ora piangete… Beati voi quando gli uomini vi odieranno, e quando vi scacceranno da loro, vi insulteranno e metteranno al bando il vostro nome come malvagio a motivo del figlio dell’uomo. Rallegratevi …” (Mt 17, 20-23). Il cristiano è un mandato: “Il Signore scelse altri settantadue discepoli, li mandò avanti a se, a due a due, in tutte le città e villaggi che stava per visitare” (Lc 10, 1), e con le istruzioni ben chiare: “Pregate dunque il padrone della messe perché mandi operai nella sua messe!” (Lc 10, 2). Come lo era allora, è urgente ancor più oggi sentire la chiamata del Signore, accoglierla ed “andare”. Non si conserva ciò che si è ricevuto in dono, ma lo si offre perché è grande e tutti possono riceverlo per mezzo nostro. Nessuno di noi deve pensare di poter usufruire egoisticamente del dono della fede, della chiamata, pena il rischio di perderla completamente, come spesso purtroppo succede, quando la si riduce a qualche messa che sa più di un religioso avulso dalla vita. L’inviato deve avere la consapevolezza innanzitutto di esserlo, perché se non c’è questa coscienza di essere stato chiamato, inviato e di esserlo permanentemente e spiritualmente, è un arteriosclerotico che ha perso la memoria sia della propria identità, sia della propria missione: “Andate”. La dignità del discepolo non è una acquisizione di diritto, ma un dono di Cristo, che lo rende partecipe del suo compito, della sua missione. Necessariamente e di conseguenza, deve avere le caratteristiche che il Maestro ritiene necessarie per svolgere il mandato. Fondamentale è considerare Lui come il primo, l’essenziale, il determinante, il tutto per chi pone la sua fiducia in Lui: “Il Signore è mia porzione e mio calice” (Sal 16, 5), perché dovrà confidare solo in lui. Questo è il fondamento della quotidianità di ogni discepolo di Cristo che si sente mandato. È colui, colei che confida solo in lui e non nelle sue capacità, siano esse intellettuali o sociali o economiche, perché solo il Signore basta; solo Lui è tutto, ed è chiamato ad annunciare che Cristo é tutto! Gesù il tutto! È possibile? Forse questo può andar bene per i sacerdoti, i frati, le monache, gli eremiti, ma non è così; Gesù chiama, manda tutti, cristiani laici inclusi. Nessuno può sedersi alla mensa del Signore senza l’offerta dell’impegno quotidiano dell’annuncio in parole ed opere, pena il non essere degni di lui e con le credenziali che lui richiede, che sono poi le sue stesse. Addirittura Gesù entra, da padrone, anche nelle relazioni parentali: “Chi ama il padre o la madre più di me, non è degno di me”. Gesù non può essere amato meno di un altro: non sarebbe il Signore della nostra vita da amare con tutto il cuore. “Amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze. Questi precetti che oggi ti do, ti siano fissi nel cuore. Li ripeterai ai tuoi figli, ne parlerai quando ti trovi in casa tua, quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai. Te li legherai alla mano come un segno, ti saranno come un pendaglio tra gli occhi e li scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte” (Dt 6,4-9). Questo ci dice la Bibbia! Dio è amore. San Polo diceva, e in lui ogni discepolo dovrebbe dire: “Per me infatti il vivere è Cristo” ( Fil 1,21). Dovremmo poter dire anche noi con convinzione, con trasporto, con amore che Cristo è la nostra vita. Lo diciamo alla persona che si ama, che non ha dato la vita per noi, e non lo diciamo a lui? Ma dirlo comporta un progetto e cioè il vivere per lui, con lui e in lui. Sembra quasi opprimente leggere questo pensiero, ma il discepolo o è innamorato di Cristo, suo maestro, o non è un discepolo del Signore. Amo Cristo perché lui per primo ha dato la sua vita per me: “In questo sta all’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati” (1 Gv 4,10).
Quanto sarebbe bello e significativo per noi gioire dell’appartenenza a Lui e del suo amore e per poter dire con San Paolo: “Non ho certo raggiunto la meta, non sono arrivato alla perfezione, ma mi sforzo di correre per conquistarla, perché anch’io sono stato conquistato da Cristo Gesù” ( Fil,3,12). Alla sua passione per me rispondo con la mia per Lui: sono stato conquistato! Si, il cristiano si sente conquistato da Cristo. Solo così può rispondere: Eccomi, Signore, si faccia di me secondo la tua parola. Questo indica una intimità di appartenenza i cui frutti sono le opere. Possiamo ancora dire con San Paolo: sono stato conquistato da Cristo. Il cristiano è un conquistato da Cristo, per questo Gesù afferma: “Chi ama il padre e la madre più di me, non è degno di me” (cfr. Lc 14,26 ss);non può essere amato di meno! Alla sua passione per me, rispondo con la mia passione per Lui: sono stato conquistato! Allora l’Amato diventa vita: “Io sono la via, la verità e la vita” (Gv 14,6). Questo comporta prendere la nostra croce, che è quel male che è in ciascuno, e Lui si fa nostro Cireneo, porta la nostra quotidianità perché possiamo offrirla con Lui. Ci condivide perché ci ama; lo condividiamo perché lo amiamo.
Preghiamo con il ritornello del salmo responsoriale: “Canterò per sempre la tua misericordia”.
Don Pierino