Coronavirus
tra paure e speranze

In questo periodo pubblicheremo alcune riflessioni e preghiere fatte da nostri amici durante i primi tempi della Pandemia per condividere paure e speranze e con l’auspicio che anche altri possano offrire il loro contributo inviando a:  info@parrocchiasanlazzarolecce.it

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La mia è una generazione a cui è stato concesso tutto: possiamo uscire ogni volta che vogliamo, vedere amici e parenti con una facilità incredibile, spostarci da una parte all’altra del mondo in brevissimo tempo e con pochi soldi, avere l’imbarazzo della scelta dei locali in cui cenare la sera, godere di qualsivoglia tipologia di divertimento messa a nostra disposizione dalla società moderna. Siamo dei bambini viziati e anestetizzati da un mondo che non ci chiede più di aspettare qualcosa, nessuna conquista, nessuno sforzo. Poi, a gennaio, immagini surreali mi hanno inchiodata sulla sedia, con il fiato sospeso. Ricordo due giovani della mia età che si davano un bacio, ma le loro bocche non potevano incontrarsi perché erano coperte da una mascherina. Wuhan appariva in tv come un luogo desolato, crollato nel buio più totale, solo alcune luci provenienti dalle finestre dei balconi lasciavano la speranza di un po’ di vita, un po’ di colore.
L’immagine di un uomo steso a terra, ormai senza vita a causa di un infarto. Nessuno lo aveva soccorso perché non si poteva più interagire col prossimo, si poteva solo fuggire da quel virus invisibile, il covid 19.
Si poteva provare a correre più veloce della morte, e nient’altro. In poco tempo la Cina è sprofondata in un blackout totale, la vita doveva restare sospesa per riuscire a proteggerla. Mi sembravano topi in trappola, non credevo di potermi trovare al posto loro.
E’ successo tutto molto velocemente. Codogno, il paziente 0, i casi che si moltiplicavano ad una velocità terrificante, la paura che iniziava ad invadere la mente di ognuno noi. Il primo momento di vero sconforto e di rabbia l’ho provato guardando le immagini dei fuorisede che fuggivano in massa da Milano, assaltando gli ultimi treni e aerei disponibili per tornare qui al sud. Ho pensato che la paura stesse prendendo il sopravvento e che l’egoismo ci avrebbe portati a soccombere.
Il Lockdown è stato inevitabile, giusto, auspicato da tutti. Devo ammettere di non aver capito bene, all’inizio, in cosa consistesse. Non avevo capito, per esempio, che non avrei più potuto vedere il mio ragazzo, almeno per un mese. Tantomeno che non avrei più potuto mettere piede fuori casa per nessun motivo al mondo, se non per fare la spesa, di tanto in tanto. E’ iniziato così un periodo che definirei, col senno di poi, di totale “sospensione”. Non solo del paese, delle attività economiche, ma soprattutto della vita, dell’esistenza intesa come momenti che scorrono inesorabili. Ecco, non scorreva più nulla, non c’era più movimento, eravamo sospesi. L’impressione era quella`di vivere in una bolla di sapone che poteva scoppiare da un momento all’altro, catapultandoci in una dimensione di caos e tragedia, come i telegiornali continuavano a prospettarci, ogni minuto di ogni lunghissimo giorno. l rumori delta città erano ormai lontani anni luce, ma se penso al mio stato d’animo, non posso parlare ne di angoscia, ne di particolare apprensione. Il silenzio di quelle giornate lo ricordo come un vento leggero che ti accarezza e ti consola, mentre intavolavo un pacato dialogo con me stessa che mancava da molto tempo. Una pausa, ecco, una stranissima e inaspettata pausa. Ho organizzato le mie giornate come meglio potevo, ho elaborato improbabili programmi di allenamento fai da te che mi hanno dato  la costante sensazione di star progettando qualcosa, ho guardato un po’ più a lungo i miei genitori, li ho trovati ancora più belli e preziosi del solito. Ho cercato di essere più collaborativa in casa, dal momento che avevo tempo a sufficienza per dar sfogo alla mia tanto cara e amata pigrizia. Ho cantato, guardato film, organizzato videochiamate di gruppo con gli amici per non dimenticarci gli uni degli altri. Abbiamo giocato a “nomi, cose e città”, non lo facevo da molto tempo ma mi sono divertita tantissimo, Quanto sono belle le cose semplici quando hai il tempo di guardarle bene? Raramente ho pianto, ci sono state cose che mi sono mancate terribilmente, ma sapevo che le avrei riavute, prima o poi. Mentre quel tempo prezioso da dedicare a me stessa, non sarebbe tornato più indietro ed io avevo voglia di godermelo, di conoscere me stessa anche in questa occasione così anomala.
Quando mi assaliva lo sconforto e mi veniva voglia di lamentarmi pensavo ad Anna Frank. Si, Anna Frank e i suoi due lunghissimi anni vissuti in un nascondiglio con, la famiglia ed alcuni estranei, senza poter mai evadere. A 13 anni e con una prospettiva terrificante, ad aspettarla fuori, in un mondo che fino a poco tempo prima era stato la sua casa. Bene, pensavo a lei ed immediatamente i miei due mesi di quarantena mi sembravano decisamente più sopportabili. Oggi, di nuovo liberi seppur con cautela, di questi due mesi resta un ricordo ovattato, a volte ho l’impressione di non averli realmente vissuti, ma se mi guardo indietro mi rendo conto che alcune cose sono cambiate irrimediabilmente. Le innumerevoli vittime rimaste sole in ospedale, senza poter dare un ultimo saluto ai propri cari, senza il calore di un abbraccio, di una parola di addio.
Il Papa, solo e commosso, in Piazza San Pietro, ci ha lasciato un’immagine di una potenza storica incredibile.
Bergamo che soccombeva.
Le attività commerciali chiuse, l’economia al collasso, la gente che aveva farne. Opportunità di lavoro sfumate.
L’attesa.
Mi rimane addosso l’assordante rumore dell’attesa che io non conoscevo, il bisogno di pazienza, di aspettare con calma che la tempesta svanisca e che il sole splenda di nuovo nelle nostre giornate.
Lucio Dalla diceva “Aspettiamo che ritorni la luce, di sentire una voce. Aspettiamo senza avere paura, domani.”
Ecco, adesso ho imparato ad aspettare.

Chiara M.

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Caro Simeone, santo vegliardo,
tu non hai patito “la vecchiaia” come malattia (così la definivano i latini) perché, dopo una vita ricca di fede, proprio nella terza età, hai avuto la gioia e il dono, attesi per decenni, d’incontrare Dio, fattosi per noi bambino. In un modo tutto speciale, Gesù si è offerto alle tue braccia: ha voluto essere da te presentato al Padre, sotto gli occhi di Maria e Giuseppe, come te, e con te, trepidanti. Chi fra noi, cristiani, non avrebbe desiderato, al tuo posto, trovarsi cuore a cuore col Signore del cielo e della terra, che, per un suo disegno imperscrutabile, è divenuto piccino? Pure, ne sono certa : se tu avessi potuto presagire il dono che quel Bambino aveva già in cuore – farsi, per gli uomini, Eucaristia – avresti provato certamente una santa invidia nei nostri confronti. Gesù si è fatto Pane e noi, che ne mangiamo, formiamo con LUI una unità incomprensibile dall’intelletto, ma desiderabile dal cuore. Altro divino segno della Grazia il Signore ci offre nel Battesimo: siamo divenuti “noi stessi” quel tempio, ospitale della divinità, nel quale tu hai potuto solo servire e pregare. A quale dignità ci ha innalzati quel “Figlio” che tu hai tenuto tra le braccia! Santo Simeone, testimone esemplare per noi che viviamo la terza età! Aiutaci a colmare il tempo, che ancora ci si offre da vivere, della lode e del ringraziamento per i doni, con cui il Signore continua ad arricchirci; Egli, che ha voluto, per molti anni, abitarci, come sua casa, un giorno ci chiamerà per offrirci di vivere, con LUI, l’eternità. Sarà piena allora la nostra gioia che non avrà fine.

Mariagrazia C.